Si avvicina inesorabilmente la ricorrenza del centesimo anniversario del tragico disastro del Gleno: il 1° dicembre 1923 alle ore 7.15 crollò una parte della diga appena terminata riversando a valle l’acqua trattenuta e la parte centrale della costruzione, a cui si aggiunsero il materiale naturale (terra e vegetazione) e le costruzioni che la devastante massa in movimento trovò sul suo tracciato, trascinando via tutto.
Molto è stato scritto su questa tragedia, a proposito e anche a sproposito, spesso anche con la sola semplice intenzione di non fare mancare la propria opinione. Di certo il tempo trascorso ha mitigato l’ondata emotiva che tante volte è l’unica motivazione che spinge a sentenziare senza obiettività e senza riflettere più di tanto, con la voglia di trovare ad ogni costo e immediatamente una ragione per gli accadimenti successi. Il ricordo non è stato di certo scalfito dal passare degli anni, anche perché vive ferite sono ancora presenti a testimoniare i drammatici fatti accaduti. Il bisogno di voler ad ogni costo trovare una risposta certa e inoppugnabile ad ogni domanda rientra nella natura umana, mentre la storia insegna che la rilettura delle cose, la loro attenta analisi e lo studio di ogni circostanza, portano inevitabilmente ad indicare quasi sempre una serie di concause, soprattutto in assenza di riscontri assoluti, incontestabili e verificabili.
Queste considerazioni nulla tolgono alla drammaticità dell’evento, ma intendono arricchire il dibattito offrendo anche spunto per un ulteriore momento di riflessione.La storia purtroppo insegna anche che troppo spesso l’Uomo non sa fare tesoro dei propri errori, ripetendoli nuovamente a causa delle propria presunzione e ignoranza. Il tragico evento che devastò la Valle di Scalve e sconvolse la Valle Camonica causando un numero di vittime mai ufficialmente determinato in maniera certa, è ancora motivo di indagini e riflessioni. Leggere sul libro di Pedersoli che, dopo la sua analisi di oltre 30.000 pagine dei documenti del processo finalizzate alla redazione del libro, si procedette alla loro distruzione fa restare senza parole. Di certo la sostituzione e l’integrazione del progetto iniziale previsto per la costruzione della diga del Gleno, a giudizio dei numerosi e competenti professionisti che ancor oggi analizzano disegni e documenti, determinò inevitabilmente lacune strutturali determinanti che pregiudicarono la tenuta della diga stessa, a cui sicuramente si aggiunsero difetti costruttivi e operazioni lucrative di vario genere.
E’ anche certo che le incriminazioni ufficiali degli imputati per omicidio colposo e per altri innumerevoli reati furono in seguito riviste e ridimensionate fino ai minimi termini, con condanne irrilevanti che sicuramente non resero giustizia alle vittime e ai superstiti inermi di questo disastro, per arrivare poi all'assoluzione dopo il ricorso in appello: ancor oggi, purtroppo, la storia si ripete in tante altre tragedie, dove l’identificazione di precise responsabilità appare impossibile e dove chi ha subito lutti e danni viene abbandonato a se stesso, alla generosità e al conforto di chi spontaneamente si sente vicino a chi soffre.
All’interno di queste riflessioni, Bendotti Manfredo di Colere, soprannominato Mago, appassionato ricercatore sulla storia locale e profondo conoscitore come nessun’altra persona di ogni luogo scalvino, avanza alcune considerazioni inedite sul disastro della diga del Gleno. Dopo un’attenta analisi delle cartine topografiche dove è sovrapposto il reticolo metrico, dopo calcoli scrupolosi e innumerevoli sopralluoghi sul posto, Manfredo Bendotti sostiene che la capacità di invaso della diga non potesse in alcun modo contenere 6 milioni di metri cubi d’acqua, ma esattamente la metà. Portando inoltre la linea di livello della diga a mt. 1550 anzichè ai 1548 sempre citati in passato, la superficie totale del lago artificiale poteva arrivare a 200.000 metri quadrati e non certo ai 400.000 citati nelle varie pubblicazioni. Inoltre Manfredo Bendotti ha calcolato anche la superficie e la capacità di contenimento della piana del Saculì, che portata fino alla quota del paese di Dezzo (750 mt) permette di ottenere una superficie complessiva di 335.000 metri quadrati. Essendo la località Saculì posta ad un’altitudine di mt. 709, con un dislivello di mt. 41 rispetto a Dezzo (ben superiore all’altezza dello sbarramento della diga del Gleno – 26 metri?), viene calcolata una capacità di contenimento superiore di una volta e mezzo quello della diga: come sarebbe pertanto stato possibile un’ondata di ritorno, ipotizzata e citata in tanti documenti, su una capienza tanto enorme? Si vedano le tavole allegate con i relativi calcoli. Inoltre l’eventuale ondata di ritorno avrebbe inevitabilmente distrutto le case di Dezzo che erano state risparmiate, le fucine di Val Giogna e Castegnola che sono rimaste, ossia tutto quanto non protetto dal grande masso. La teoria avanzata a suo tempo, e sempre riportata, cade così nel vuoto. Si veda a tal proposito il confronto tra le foto sottostanti: la prima è stata concessa da Manfredo Bendotti e mostra Dezzo prima del disastro, la seconda è costituita da una cartolina d’epoca da noi acquistata in un mercatino d’antiquariato, in cui si vedono chiaramente le costruzioni risparmiate dalla catastrofe e la scomparsa di tutta la frazione posta sotto il comune di Colere; nella terza, sempre acquistata in formato cartolina, è visibile uno dei primi momenti di lavoro a Dezzo di pulizia dei luoghi devastati.
Manfredo Bendotti sostiene inoltre, a ragion veduta e dopo molte verifiche effettuate negli anni scorsi in data 1 dicembre , che all’orario in cui a Dezzo si riversò l’immensa massa di acqua e materiali, in condizioni meteorologiche avverse a causa del cattivo tempo documentato per il 1° dicembre 1923 e in assenza di illuminazione elettrica venuta a mancare per l’avvenuta a distruzione delle centrali poste a monte dell’abitato, sarebbe stato impossibile a chiunque vedere e identificare alcunché: l’onda assassina passò in rapidissimo tempo e le presunte testimonianze, particolareggiate e piene di dettagli riportate dalle cronache, altro non possono essere che ricostruzioni ipotetiche.
Nulla toglie alla gravità dell’immane tragedia, mitigata oggi visivamente dai recenti lavori effettuati dall’ENEL nel 2009 e 2010, con i quali si è provveduto a realizzare alcune modifiche e la demolizione del tampone della vecchia diga, che però non hanno rimarginato le ferite rimaste aperte nella storia e nell’orgoglio scalvino, con la viva speranza che prima di intraprendere opere di un certo rilievo si proceda sempre a pensare alle possibili conseguenze e si lavori con onestà e rigore.
Si ringrazia Pier Giorgio Capitanio per aver messo a disposizione l'intero materiale fotografico.
Per ulteriori approfondimenti sull’argomento si consiglia la consultazione della sezione appositamente dedicata: http://www.scalve.it/gleno/
Vedi il PDF con i calcoli e le elaborazioni di Manfredo Bendotti
Il tampone centrale
Piloni ed archi in costruzione
La diga da est vista dall'alto
Parte della diga finita vista da ovest
Lavori di rifinitura alla diga nella fase finale
La diga ultimata
Operai in posa (foto sopra e sotto)
Lo squarcio dopo il crollo
A sinistra le uniche tre case risparmiate nella frazione Dezzo di Colere
La gente si mobilita a Dezzo, nei giorni immediatamente successivi alla tragedia
La frazione di Dezzo devastata: la parte sotto Azzone è stata solo marginalmente toccata
L'acqua distruttrice completa la propria opera a Darfo
La frazione di Dezzo prima degli sconvolgimenti causati dal crollo della diga
Laghetto di Gleno (estate 2013)
Il rudere della diga vista dall'alto (estate 2010)
Lo squarcio lascia intravedere il massiccio della Presolana (estate 2012)